Immaginate una radura appenninica, una giornata indefinibile, nebbiosa e solare allo stesso tempo. Astraetela. Dimenticatela. Rimarrà impressa nella mente una forma indistinta, ricordo di qualcosa di non vissuto ma rammemorato, trasfigurato, proprio perché sconosciuto. Ignoto ma presente, quindi universale. Ora, in un punto di questa piana, campeggia un albero. Un albero-uomo, antico e presente, compendio simbolico di tutta la Natura e del suo divenire.
Qui comincia la nostra storia. Una storia inscritta in un flusso extratemporale, che si svolge sempre e mai, ovunque e in nessun luogo, in cui qualsiasi sentimento o emozione umana diviene condivisa ed eterna, incarnata non dalla caducità del corpo fisico, che se ne fa tuttavia emblema, ma dalla sacralità assiale dell’albero, espressa come allegoria.
Tale individualità, nella magnifica serie scattata da Giorgio Cutini, si esprime con campi energetici e di forza che invadono metafisicamente tutta la natura circostante, di cui l’elemento arboreo diviene cartina di tornasole. Così, il reale, investito da un processo disconoscitivo, viene recuperato ma ridotto a frammento presente ab aeterno e, proprio in virtù di ciò, riesce a fare a meno dell’umanità, sublimata in una consistenza incorporea più alta tramite uno spiccato lirismo fotografico; la vita psichica risulta, dunque, assolutamente libera di esprimersi grazie alla capacità poietica ed intuitiva del fotografo.
Gli scatti della serie in oggetto, infatti, vedono tanto la rarefazione del paesaggio quanto la sua manifestazione in maniera assoluta, in modo tale da riuscire ad annullare l’elemento umano, man mano che i sentimenti si a!ermano, grazie alla registrazione inconscia di tracce mnestiche, di vibrazioni collettive.
Per cui, questo albero, pilastro tra terra e cielo, punto di congiunzione tra umano e divino, si fa correlativo oggettivo di una vasta gamma di emozioni, di moti dell’animo che rendono l’umano tale, intuendo nella Natura qualcosa di proprio e annullando i confini che intercorrono tra l’espressione cerebrale, di cui il mondo odierno è malato, e quella intuitiva, prediscorsiva, espressa con sfocature, dissolvenze e scale di grigi.
Attraverso inquietudine ed euforia, odio e curiosità, passando per abbandono e ribellione, per spiritualità ed oblio, il flusso energetico tra uomo, ormai fitomorfo, e pianta, ormai antropomorfa, non si ferma solo al visibile, ma avviene analogicamente anche nel sottile, tra le radici vegetali e l’anima, senza più confini o spazi semantici tra l’uno e l’altra.
Si tratta, dunque, di una trama di corrispondenze di baudelairiana memoria, in cui l’albero è tale non tanto come forma quanto come essenza. La distanza tra soggetto ed oggetto è, quindi, annullata grazie al riconoscimento di un segno profondo che scardina la percezione, aiutato dall’essenzialità del bianco e nero. Alla luce di ciò, l’albero è libero di manifestarsi nella sua potenza di archetipo, palesando un isomorfismo essenziale tra umano e vegetale, nella verticalizzazione di un messaggio simbolico che l’uomo, urla, silente, al cosmo.
Nell’entrare in questi epifanici interstizi emozionali, è chiaro che ognuna delle fotografie scattate da Cutini diviene macrocosmo assoluto in quanto l’emozione, estrinsecata dal titolo, si fa la sola esistente, manifestandosi come una sorta di ipostasi sentimentale e guidando un processo che riesce a compiere il miracolo: astrarre il reale mantenendo la figuratività.
Flavia Orsati
Ascoli Piceno, 7 febbraio 2023
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